Il termine jeans (o blue jeans) si ritiene che derivi direttamente dalle parole in lingua francese "bleu de Gênes". All’origine era il fustagno che, a partire dal Cinquecento, arrivava a Londra dalla Repubblica Marinara di Genova, molto apprezzato per la sua robustezza e il suo costo, era anche abbondantemente utilizzato a partire dal XVI secolo dalla marina genovese per vestire i marinai.
Fu reinventato nel 1871 dal sarto Jacob Davis, che gli diede la forma che conosciamo oggi, per essere poi brevettato con Levi Strauss il 20 maggio 1873. Negli anni settanta diventò uno dei simboli della liberazione sessuale, utilizzato dalle rockstar più famose fino a diventare un capo di abbigliamento iconico. Oggi è sulle gambe di tutti anche grazie ai prezzi bassissimi delle catene di fast fashion, ma quali sono i suoi costi sociali e ambientali?
Denim, i numeri di un fenomeno:
Vengono prodotte circa 23 mila tonnellate metriche di denim l’anno**
la produzione di jeans assorbe circa il 35% di tutta la produzione mondiale di cotone*
per produrre un solo chilo di fibre di cotone sono necessari 10.000 litri di acqua* nella sola India e Cina, maggiori centri produttivi, si utilizzano addirittura circa 120 miliardi di litri d'acqua annui**
Oltre all’impiego massiccio di acqua per la produzione del cotone destinato al denim e i danni ambientali causati da questo tipo di crescita intensiva (come l’utilizzo di fertilizzanti chimici e pesticidi), tintura e lavaggio non sono meno problematici.
La tintura indaco, tipica del jeans, non si dissolve in acqua. Al fine di dare al tessuto il colore desiderato vengono usate sostanze chimiche e metalli pesanti (cadmio, cromo, mercurio, piombo e rame) ed i filati vengono immersi in questa miscela da 3 a 9 volte. Secondo lo studio “The Widespread Environmental Footprint of Indigo Denim Microfibers from Blue Jeans” nonostante le fibre dei jeans siano “naturali”, quando entrano in contatto con l’ambiente, non si biodegradano. Le microfibre del denim si limitano a depositarsi su sedimenti naturali. Inoltre, come raccontato nel documentario "River Blue", a causa dello scarso controllo, la miscela di tintura viene a volte sversata nei fiumi con impatti devastanti per l’ecosistema. Da analisi di laboratorio le fibre color indaco del blue jeans sono state trovate nei campioni presi a varie profondità di laghi e fiumi e persino nelle regioni più remote dell’Artico**.
Infine, la sabbiatura, l’ultimo dei processi di lavorazione del denim, è estremamente pericolosa. In questa fase viene spruzzata della sabbia silicea sul pantalone per regalargli quell’aspetto invecchiato; è un processo strettamente controllato in molti paesi proprio per l’altissimo numero di sostanze dannose che rilascia. A causa dell’enorme richiesta di jeans a basso costo però, vengono alimentate tutte quelle produzioni che non tutelano i loro lavoratori, che rischiano fino al cancro ai polmoni. Inoltre i residui della sabbiatura, versati nei corsi fluviali nei pressi degli stabilimenti tessili, causando danni alle acque dei mari dove i fiumi confluiscono, all’ecosistema, ai lavoratori e agli abitanti delle comunità circostanti.
Cosa possiamo fare?
- lavare i jeans non più di una volta al mese
- scegliere jeans prodotti con tinture eco friendly o senz’acqua
- scegliere jeans lavati all’ozono
- riciclare il denim, non buttarlo mai
Fonti:
*Rifò
**Repubblica 28 NOVEMBRE 2020 - Anche i jeans sporcano la terra di Giacomo Talignani